Written by
Sergio Caredda
Date published
December 1, 2011
Are managers really striving for perfection?
This article was originally published on Hamlet, n° 12, 2011, and looks at the role of “perfection” in organizations.
Che ruolo ha la perfezione nelle nostre organizzazioni? Se innovazione e cambiamento sono i nostri principali obiettivi, come valutiamo la qualità del risultato che vogliamo raggiungere? Siamo davvero tutti alla ricerca della perfezione?
Ho posto queste semplici domande a una serie di manager a un recente seminario su innovazione e creatività. Lo stupore è stato la reazione più immediata della maggior parte dei partecipanti. Uno ha preso la parola affermando “Le nostre aziende esistono solo grazie al grado di perfezione e di qualità che sanno raggiungere”. Ma esiste davvero la perfezione in termini organizzativi? “Non proprio, o meglio è difficile da raggiungere, ma è quello che perseguiamo ogni giorno” ha aggiunto un altro.
Per qualche momento nella sala è regnata l’incomprensione, mentre cercavo di stimolare il dibattito e capire se qualcuno la pensava in modo diverso. Ma per molti pareva davvero che l’ideale da raggiungere fosse sempre l’assenza di qualsiasi difetto. Fino a quando è intervenuto un giovane imprenditore, recente fondatore di una start-up in ambito tecnologico. “Il lavoro della mia azienda in realtà si basa sull’imperfezione. Se davvero tutto fosse perfetto, non ci sarebbe neanche bisogno della mia azienda. Invece non lo è. Il mio vantaggio, in questo momento rispetto a tutti voi, è che sono conscio di produrre cose imperfette”.
Certo è nella natura stessa dell’essere umano quella di ricercare il “meglio”. Che si tratti di un ristorante stellato, del telefono migliore, o di un servizio impeccabile, centinaia di classifiche, coccarde, concorsi, premi, ci ricordano che il “best of” è un elemento costante nella nostra società. E in questo contesto amiamo pensare che il nostro lavoro sia quello di contribuire a raggiungere “il meglio”.
In un mondo perfetto le migliori idee sarebbero realizzate dai migliori talenti, e compiute nel miglior modo possibile creando prodotti perfetti. Il che, sappiamo, non si realizza mai. Ecco perché è importante imparare ad apprezzare il “difetto” come un elemento intrinseco di ogni ciclo innovativo e di cambiamento.
La cultura giapponese propone una risposta. Si tratta del principio del wasi-sabi, ed esprime l’accettazione dell’imperfezione. Di derivazione buddista, il concetto propone il rispetto per l’asimmetria e l’irregolarità come attributi della bellezza. Non si tratta certo di un elemento unico della cultura orientale. Capolavori come la famosa Venere di Botticelli, catturano la bellezza anche grazie ai difetti rappresentati. Nel tempo però abbiamo perso questa capacità di vedere il bello, sommersi da una cultura di business impregnata di principi anglosassoni che sembrerebbe propugnare la realizzazione della perfezione come obiettivo ultimo del lavoro. Non del tutto però: siamo ancora un po’ allergici al gagliardetto da “impiegato del mese”.
Perché dovremmo celebrare la crepa di un vaso, come qualcosa di positivo? Perché ne rappresenta l’unicità e in qualche modo la dimensione dinamica. Quanti difetti ha una start-up? Tanti: processi inesistenti, organizzazione caotica, strategia indefinita. Eppure sono proprio questi difetti che rendono l’impresa spesso vincente. Di rado un imprenditore attende che la sua idea raggiunga la perfezione per iniziare a realizzarla. E anche nella vita privata quante volte abbiamo rimpianto la nostra prima auto usata e i suoi cigolii. O la cucina della nonna, sempre troppo abbondante di oli. O le lezioni di quel giovane professore, affascinanti ma inutili…
Ovviamente non si tratta di ricercare l’imperfezione o il difetto. Non vogliamo dare adito a una cultura basata sull’insuccesso. Piuttosto si tratta di puntare davvero sull’apprendimento e sull’innovazione. Il vasaio saggio usa la crepa del vaso per imparare a evitarla, migliorando la sua tecnica, ma non per questo distrugge il vaso appena costruito.
Così un’azienda o un’organizzazione bisogna riconoscere che sono i piccoli difetti di ogni giorni a rendere dinamico il sistema. Una procedura mancante, una situazione non considerata, un intoppo alla catena produttiva. Tutti elementi che possono essere considerati positivamente se da essi derivassero un miglioramento di processo, una superiore reattività, un perfezionamento produttivo.
Un’area particolare dove l’accanimento perfezionistico deve essere evitato, è quella del disegno dei processi. Sappiamo che è impossibile prevedere tutto. Ricordiamoci di Pareto e concentriamoci sul 20% di attività necessarie a soddisfare l’80% dei casi che affronteremo. E facciamo in modo che la nostra organizzazione sia agile abbastanza da saper reagire alle eventuali eccezioni non come difetto di procedura, ma come stimolo al cambiamento.
Del resto, se l’obiettivo fosse davvero la perfezione, che bisogno ci sarebbe di essere flessibili?